Il crollo della diga del Gleno: modellazione numerica dell’onda di piena conseguente

Il crollo della diga del Gleno: modellazione numerica dell’onda di piena conseguente

Riferimenti bibliografici:
M. Pilotti, A. Maranzoni, M. Tomirotti and G. Valerio
The 1923 Gleno Dam-Break: Case Study and Numerical Modelling, Journal of Hydraulic Engineering

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    Il 1° dicembre 1923 la diga del Gleno, ultimata da soli due mesi a sbarrare l’alto corso del torrente Povo in val di Scalve (provincia di Bergamo), crollava in condizioni di totale riempimento per una serie di errori commessi nella progettazione e nella realizzazione dell’opera.

    Planimetria e prospetto della diga del Gleno. I segmenti orizzontali sovrastanti il prospetto indicano l'estensione della breccia e la sequenza temporale del crollo

    Il numero dei morti, quasi 400, attesta il carattere disastroso di quell’evento, che pure interessò una vallata alpina impervia e in ampie zone disabitata. Questo tragico evento costituì momento fondamentale nel processo di costituzione dell’attuale Registro Italiano Dighe, l’organismo preposto alla vigilanza nei confronti della corretta realizzazione e gestione degli invasi di rilevante capacità.

    La Diga del Gleno pochi giorni dopo il termine della sua costruzione

    Gli altri terribili disastri in seguito verificatisi in Italia (quelli di Sella Zerbino, del Vajont e di Stava) ebbero dinamica sostanzialmente differente.

    La diga con la breccia centrale e il lago svuotato a tergo pochi giorni dopo il collasso

    Negli anni in cui avvenne il disastro del Gleno, in valle Camonica, specialmente attorno al massiccio dell’Adamello, andava formandosi uno dei maggiori sistemi di invasi a destinazione idroelettrica, caratte-rizzati in generale da volumi ben superiori ai 4.5 milioni di metri cubi del piccolo invaso del Gleno.
    Per quanto dal punto di vista storico (e.g., Pedersoli, 1973 e 1998; Morandi, 2003) e tecnico (De Martini, 1924 e 1954; Maugliani, 2004) non siano negli anni mancate attente ricostruzioni di quell’evento, per quello che si è potuto rilevare dalla indagine bibliografica, non è mai stato caratterizzato dal punto di vista idraulico il processo di formazione e propagazione della piena che si verificò a seguito del crollo. La prima motivazione di questa ricerca è quindi quella di fornire un contributo in tale direzione.
    In aggiunta ad una ragione storica, ve ne sono poi altre ispirate da motivazioni del tutto attuali. Il territorio italiano è caratterizzato dalla presenza di estesi insediamenti urbani, soprattutto in area di pianura, ma anche in area pedemontana e di fondovalle. Diverse importanti vallate presentano infatti estesi fenomeni di urbanizzazione che hanno portato alla formazione di ampie aree antropizzate in un contesto sostanzialmente montano, cioè caratterizzato dalla presenza di un rilevo orografico circostante in grado di produrre situazioni di elevata pericolosità di origine idrogeologica. Ciò in particolare si riscontra nel territorio bresciano dove molte valli esprimono un potenziale economico assai rilevante. In questi contesti il rischio idraulico, nella sua accezione di combinazione della pericolosità con l’esposizione, diviene potenzialmente elevatissimo.
    L’obiettivo di ricostruire la dinamica del processo di propagazione dell’onda di piena che fece seguito al crollo dello sbarramento del Gleno si traduce quindi in quello di individuare metodologie che siano applicabili, in via preventiva, in altri contesti similari e si deve confrontare con la effettiva disponibilità di strumenti modellistici adeguati. Gli elevatissimi valori di portata, unitamente alla particolarità morfologica della vallata considerata, hanno in questo caso legittimato l’utilizzo di un approccio monodimensionale basato sulle equazioni di de Saint-Venant

    dove U(t, x), F(t, x) e S(t, x) indicano, nell’ordine, il vettore delle variabili conservate, il vettore dei flussi ed il termine sorgenteNelle precedenti relazioni t ed x rappresentano rispettivamente le variabili indipendenti temporale e spaziale, g l’accelerazione di gravità, A e Q l’area bagnata e la portata volumetrica, mentre S0 la pendenza locale della linea di fondo alveo; i termini I1 e I2 assumono la nota espressionein cui b indica la larghezza del pelo libero e h la profondità della corrente. Il problema dell’integrazione numerica di tali equazioni può ormai ritenersi ampiamente e soddisfacentemente affrontato, con riferimento però a condizioni diverse da quelle in studio. Anche prescindendo del tutto dagli aspetti connessi al trasporto solido, al forte rimodellamento delle sponde e dell’alveo e al comportamento idraulico delle zone coperte da vegetazione che durante un evento del genere verrebbero sommerse, nei contesti alpini sopra ricordati la propagazione di un’onda di dam-break avviene su fondo praticamente asciutto, con continui passaggi transcritici e possibile formazione di onde di shock, in pre-senza di pendenze assai elevate e di accentuate e ricorrenti non-prismaticità. Si tratta evidentemente di condizioni che violano l’assunzione di linearità della corrente ed è quindi legittimo chiedersi fino a che punto l’applicazione di uno strumento basato su tale presupposto possa fornire informazioni utili alla gestione del rischio idraulico. Una indicazione può venire, a nostro parere, dal tentativo di ricostruzione di eventi reali, con il confronto, almeno qualitativo, dei pochi dati disponibili con quelli calcolati.
    In un recente lavoro Capart et al. (2003) hanno proposto un metodo innovativo per il trattamento di batimetrie irregolari nell’ambito della soluzione con tecnica upwind ai volumi finiti delle equazioni di de Saint-Venant, ponendolo a confronto con quello PFP (Pavia Flux Predictor) di Braschi & Gallati (1992). In aggiunta ai vantaggi delle tecniche control volume, il metodo proposto appare assai innovativo, poiché, in luogo di agire sul termine sorgente, incorpora gli effetti della non-prismaticità e della pendenza all’interno dei termini di flusso, ottenendo il soddisfacimento della cosiddetta C-property (Bermúdez & Vázquez, 1994). Nella ricerca  il metodo è stato analizzato criticamente, verificandolo su numerosi casi classici e prove ad hoc al fine di valutarne l’applicabilità su topografie caratterizzate da pendenze ac-centuate. Viene così ridefinita l’effettiva portata dei miglioramenti introdotti e chiarito il confronto con l’algoritmo PFP, le cui prestazioni, contrariamente a quanto sarebbe dato evincere dalle considerazioni riportate in Capart et al. (2003), appaiono ancora del tutto concorrenziali.
    L’applicazione di questi metodi al contesto in esame non sarebbe possibile senza aver individuato una efficiente metodologia di pre-elaborazione dell’imponente mole di informazioni topografiche richieste per portare a termine la simulazione lungo i circa 21 km di alveo lungo i quali l’onda si è propagata. Tale aspetto è stato efficacemente risolto affiancando ai solutori considerati opportuni algoritmi che, operando sul modello di elevazione del terreno della zona studiata, hanno permesso dapprima l’estrazione dell’asta lungo la quale si è svolto l’evento e successivamente l’estrazione automatizzata delle sezioni trasversali all’asta fluviale, il loro eventuale infittimento ed il calcolo delle quantità idraulico-geometriche necessarie al processo risolutivo.